Talvolta è indispensabile rivelare i meccanismi bizzarri e celati che vengono applicati, da chi guarda, alla pratica dell’indagine che sta compiendo: chi osserva le opere degli artisti dovrebbe tentare di nuotare vigorosamente contromano per risalire alla fonte del loro fare. Il mondo visivo d’oggi appare infatti codificato a tal punto che ogni creativo appartiene ad un tutto o almeno ad un parte di questo tutto: chi non è classificato si trova non solo fuori contesto ma addirittura apparentemente delegittimato. E se l’occhio del curioso alla ricerca di pieghe inattese nel panorama si ritrova illuso e frustrato, quello di chi indaga si trova invece stimolato. Occorre quindi procedere d’astuzia per capire laddove mille sfarfallii tentano d’illudere. Serve non solo arrivare ad un giudizio sull’opera, giudizio che normalmente dovrebbe richiedere tempi lunghi di sedimentazione, serve ben di più ancora capire chi di quest’opera è l’autore, il colpevole. Uno dei “trucchi” minimi e marginali per capire il rapporto che l’autore stesso intreccia con l’opera che realizza, è guardare con attenzione il modo con il quale appone la firma all’opera completata. Gli artisti grafici si tradiscono immediatamente: appongono firme retoriche. Gli artisti consapevoli appaiono invece quasi intimiditi nell’inserire il loro nome all’interno d’un lavoro che loro stessi rispettano mentre lo stanno realizzando. Courbet firmava con la semplicità d’un operaio che ha appena concluso la sua giornata d’impegno, lo stesso facevano il sommo e complicato de Chirico e il suo abissale collega Mario Sironi. E’ ciò che fa pure Giuseppe Fioroni. Nell’aspetto fisico, nella barba barocca e nel vestire da folletto, sembrerebbe egli destinato ad un comportamento ben più pirotecnico. Mentre realizza i suoi dipinti lascia correre una gestualità talvolta addirittura feroce. Porta invece per la sua opera, una volta compiuta e pronta alla firma come un testo da lasciare ai posteri, un rispetto finale che diventa per l’osservatore accorto il segnale d’accesso ad un cosmo pittorico che si rivela ben più complesso di quanto non possa apparire ad un occhio inavvertito. Sicché il suo garbo calligrafico diventa strumento di contrappunto per indagare la sua virulenza pittorica. E questa stessa energia nell’inventare l’immagine viene percepita successivamente non come un magma incontrollato ma come una pulsione forte dominata con attenzione da una radicale intelligenza artistica, così consapevole questa da potere superare ogni rischio di apparentamento o di citazione.
Fioroni è autenticamente transgenico: riprende il percorso dell’arte in quel momento espressionista che gli altri avevano lasciato in sospeso perché gli eventi bellici della Prima Guerra Mondiale avevano mutato il fondo dell’anima delle visioni possibili. Non credo che egli lo sappia, anzi è forse inutile che ne sia addirittura al corrente, ma oggi, a cent’anni esatti da quella deflagrazione della demenza europea, lui ci riporta non con i piedi a terra ma con la testa fra le nuvole delle emozioni troncate. E così tornano, come dei diavoletti saltati fuori dalla scatoletta, le facce clownesche di Ensor con le loro contorsioni cromatiche e fisiche; così tornano le barche a vela di Marquet che hanno preso il vento delle postmodernità. Torna la materia coloratissima d’un Vlaminck non ancora reso monocromatico dal fango delle trincee. Tornano le melanconie dei primi arlecchini rosa di Pablo Picasso e gli svolazzi celesti di Marc Chagall. Ma non sono imitazioni. Corrispondo al tentativo assai riuscito di riprendere “le fila d’un discorso” dopo la condanna trasversale della cultura pittorica avvenuta prima con l’esperienza del concetto puro e successivamente con il percorso transgenico delle avanguardie degli anni ’80 del secolo scorso. Ma la sua non è affatto una consapevolezza fuori dai tumulti che il tempo intercorso ha graffiato nella memoria della sensibilità visiva. Tutta l’esperienza recente della materia, del gesto, della spatola e della goccia, dell’apparente casualità e del controllo poetico di questa casualità, viene assorbita e restituita con un freschezza rinnovata. Il gioco d’oggi non può non tenere conto dell’evanescenza che la coscienza attuale porta in se’. Il segno non può esistere in modo ingenuo: l’esperienza della semiotica ha insegnato che sotto lo strato apparente permangono gli strati inferiori d’un fare precedente. Sicché la massa pittorica che ne deriva si fa ricca di evocazioni e di vibrazioni. Ed è quella lì, che apre alle vibrazioni evocative d’un espressionismo fuori tempo, che assume denso ed evocativo valore poetico.